Giovanni Bettini ci racconta "la sua Africa"

Un ex ciclista, una mountain bike, una passione, un popolo, una cultura. Viaggio in Camerun tra le montagne del “South West”.

Giovanni Bettini, 26enne di Padova, dove studia e lavora. Ha praticato ciclismo su strada fino alla categoria dilettanti per diversi anni. Attualmente sta portando a termine gli studi in scienze sociologiche. Oggi ci racconta il suo viaggi in mountain bike in Camerun.

Tutto ha inizio il primo maggio 2011 quando Maria, la mia ragazza, dopo aver conseguito la laurea in fisioterapia, decide che è giunto il momento di partire per coronare un piccolo grande sogno tenuto nel cassetto: un’esperienza lavorativa in Africa. La destinazione è Fontem (Camerun, ndr), distretto di 8.000 abitanti situato nel cuore delle Bambouti Mountains, gruppo montuoso della provincia “South West”. Qui è attivo l’ospedale “Mary Health of Africa”, fondato nel 1966 dai medici italiani Lucio Dal Soglio e Nicasio Triolo, appartenenti al Movimento dei Focolari, organizzazione cattolica nata a Trento negli anni della seconda guerra mondiale per opera di  Chiara Lubich (1920-2008).

 

Al termine degli anni ’50 il popolo bangwa, che abita tutt’oggi le colline di Fontem, rischiava l’estinzione totale a causa di un fortissimo tasso di mortalità infantile (93%), provocato dall’incidenza inarrestabile della malattia del sonno. Fon Defang, l’allora capo tribale e guida morale del popolo bangwa, decise di chiedere aiuto al vescovo della città di Buea, che a sua volta girò la domanda d’aiuto a Chiara Lubich, durante un incontro in Vaticano. Da qui parte la storia recente di Fontem, che vede in primo piano la sconfitta della malattia del sonno (oggi la mortalità infantile è al 2%) e la “resurrezione” di un popolo.

 

Fontem oggi non è solo un ospedale d’avanguardia dotato di 115 posti letto, riconosciuto dal Ministero della Sanità del Camerun come centro di cura e prevenzione contro AIDS e tubercolosi. Nel corso degli anni, questo distretto situato a 280 chilometri da Douala, formato da tanti villaggi come Nveh, Menji (sede della prefettura), Belleh, Azi, Belluah, Njenciie, è diventato un punto di riferimento per tutto il Camerun e non solo. Grazie all’educazione d’eccellenza espressa dal college, “Our Lady Seat of Wisdom”, che offre l’istruzione pre-universitaria, alla presenza di una centrale idroelettrica e a numerosi centri di aggregazione, studio e scambio interculturale gestiti dai membri del Movimento dei Focolari, sono circa tremila le persone che ogni anno visitano la realtà di questa piccola città nel cuore della foresta. Vivere a Fontem per un giorno, una settimana, un mese, un anno, vuol dire immergersi in un “melting pot” dal quale non è possibile uscire indenni.

 

Il mio viaggio per raggiungere Maria, comincia il pomeriggio del 25 dicembre 2011. Le strade sono semi deserte e l’auto percorre l’autostrada verso Milano. Nel bagagliaio, stipato all’inverosimile, le valigie e…la mia mountain bike Rockrider 8xc, messami a disposizione da Decathlon Padova, il negozio dove lavoro. Ad aspettarmi Aurelio Sitta, “Arzi” per gli amici. Quarantotto anni, perito elettrotecnico e una vita spesa a servizio degli altri, in modo particolare in Camerun: “Casa mia!”. Il viaggio lo affronto con lui, meno male, perché lo sbarco a Douala, il pomeriggio del 26 dicembre, è a dir poco traumatico. Trentacinque gradi e un’umidità che scioglie i vestiti e qualsiasi pensiero… Il giorno seguente, riparto alla volta di Fontem in compagnia di Maria e Aurelio.

 

Finalmente il 28 dicembre alle ore sette e quindici, aggancio gli scarpini ai pedali. Si parte! Ogni giorno un percorso diverso. Partenza e arrivo delle escursioni tra Nveh e il villaggio montano di Fonjumetaw. Sono “scortato” da Gianni Antoniol, cinquantasei anni, artigiano, originario di Sovramonte, piccolo paese in provincia di Belluno. Come Aurelio, ha scelto di spendere la sua vita al servizio degli altri. Per ora il destino o qualche volontà più grande lo ha portato a Fontem, dove gestisce la falegnameria del villaggio, mentre nel tempo libero è impegnato a diffondere la pratica del ciclismo tra i ragazzini. Charles, vent’anni, è una delle sue “vittime”. Ha il fisico svelto della gazzella e lo sguardo fulmineo del ghepardo. Con i pochi risparmi messi da parte si è comprato una mountain bike. Per lui vale oro, in Italia sarebbe un “cancello”. La mia Rockrider 8xc con telaio in alluminio idroformato, forcella Rock Shox Sid Race e gruppo misto Shimano Xt/Xtr sembra in confronto uno shuttle della Nasa pronto per decollare alla volta dello spazio.

 

La prima strada che affronto sale verso il villaggio di Njentse: è ripida, impervia, a tratti bastarda. A Fontem la pianura scordatevela! La pietra, affamata di terra, spunta dal suolo quasi a voler essere insaziabile e così trovare un valido passaggio tra i sassi da queste parti è un’impresa, tanto per mettere le cose in chiaro. Qui la parola “bicicletta” è ancora primitiva, quasi sconosciuta, tutta da esplorare. “Pedalare” è un verbo dal tono pionieristico. Lo si capisce mettendo ruota nei villaggi di Njenacha e Fotoh. La sensazione è quella di essere un moderno e tecnologico Vasco da Gama, il primo esploratore che circumnavigò le coste dell’Africa. Tirare i freni per fermarsi qualche istante nella “piazza” di un villaggio è un gesto paragonabile alla scialuppa che incaglia la riva di una spiaggia sconosciuta. “Forse qui nessuno è mai arrivato in bicicletta”. Sono emozioni antiche, pure, affascinanti così come lo sono gli sguardi delle persone, in modo particolare dei bambini, che con allegria, ti si incollano a ruota, come i più fanatici  tifosi lungo le strade del  Tour de France.

 

In cima ad una salita, ecco una “tifosa". Si chiama Nelly, ha otto anni. Abita in un piccolo villaggio senza nome nel “bush”, la foresta più fitta. In mano ha un secchiello, nient’altro. La curiosità e un pelo di timore vengono spazzati via da un sorriso. “Ti piace andare a scuola?” – “”, mi risponde. “Hai un sogno Nelly?” – silenzio e il viso che cerca di nascondere l’imbarazzo rifugiandosi sulla spalla. “Dai ce l’avrai un sogno…” – “Voglio diventare un’insegnante. D’inglese”.

 

Sono attimi di rara bellezza. “Insegui il tuo sogno Nelly!”, sono le uniche parole che riesco a pronunciare, prima di tuffarmi lungo una discesa che farebbe gola a qualsiasi downhiller. La visibilità è quella che è. Questa volta la sabbia e la polvere non centrano. E’ colpa delle lacrime trattenute a stento. In un attimo sembra di vivere tutta l’essenza dell’Africa.

 

Se c’è ancora qualcosa da esplorare a questo mondo è possibile scoprirlo solo dal sellino della bicicletta, “Un dono della vita che trasforma in musica storie di uomini” come scrisse Claudio Gregori.

 

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